Il Polietilene è il materiale plastico più diffuso al mondo, con una lavorazione media di ottanta milioni di tonnellate all’anno. È resistente, conveniente, e trova uso nella fabbricazione di moltissimi tipi di contenitori, dai sacchetti di plastica alle bottiglie. Sfortunatamente, però, il Polietilene, o Politene (i nomi sono equivalenti e si abbreviano con PE) presenta un difetto di base di grande peso e importanza, soprattutto oggi che l’ecologia è diventata un fattore da valutare attentamente in ogni decisione: è molto inquinante, perché la sua stabilità lo rende resistente alla regolare decomposizione nell’ambiente. Questo genera problemi di diverso ordine: anzitutto, evidentemente, ecologici, dato che qualsiasi smaltimento del politene è solo un accumulo; in secondo luogo, faunistici, in quanto i sacchetti abbandonati sono un rischio letale per gli animali selvatici, che possono soffocarvi; e in terzo luogo, estetici, in quanto i sacchetti abbandonati deturpano l’ambiente. Per questa motivazione, da più parti e da diversi anni si auspica la fabbricazione di un nuovo tipo di pellicola di politene biodegradabile, che renda praticabile un reale smaltimento di questa sostanza in condizioni di sicurezza ed efficacia.
La scienza e la ricerca non sono rimaste inattive a tal proposito, e al momento sono due I binari sui quali si sta lavorando per conseguire questo obiettivo: uno prevede di variare le lunghe catene polimeriche di carbonio del politene con un additivo che le renda biodegradabili, e l’altro si propone di mutare interamente la sostanza di partenza con cui realizzare il politene, scegliendone una biodegradabile, per la precisione l’amido.
Nel primo caso, alla catena di carbonio vengono aggiunte sostanze che la rendono degradabile con l’esposizione all’ossigeno, in un tempo che va da sei mesi a due anni. Il procedimento di biodegradazione ha due fasi: nella prima, l’ossigeno distrugge la plastica riducendola in piccoli frammenti (di dimensioni molecolari), e nella seconda questi ultimi vengono digeriti, ossia convertiti in biossido di carbonio, acqua e biomassa, dai normali batteri dell’ambiente. Questa plastica ha, in opera, la stessa durevolezza di quella tradizionale, è economica, e non tossica: il suo fondamentale difetto è di non essere compostabile, e di necessitare la presenza di ossigeno per decomporsi.
Il secondo approccio, al contrario, prevede di scartare completamente dall’equazione tutto il processo produttivo del politene come lo conosciamo, per lavorare invece su amido da fonti biologiche, che possono essere ad esempio patate, mais o grano. Il risultato prende il nome di “bioplastica”, e degrada velocemente e quasi completamente – in media, del 90% del suo peso in un tempo inferiore ai 180 giorni; per ottenere il risultato però non può essere abbandonata nell’ambiente, ma richiede degli impieanti di compostaggio appositi. I suoi svantaggi sono il costo molto elevato, le caratteristiche meccaniche, che sono nettamente inferiori rispetto alla plastica tradizionale, e la necessità di deviare molte coltivazioni dall’alimentazione alla produzione di materia prima per la plastica.
Il dilemma è serio, se pensiamo che il Giappone, che lo sente molto, ha valutato in 90 miliardi di dollari la grandezza del mercato che si aprirebbe con una reale soluzione pratica al problema dell’inquinamento da plastica. Rimane promettente la via intravista da Daniel Burd, un sedicenne Canadese, che ha scoperto come l’azione combinata di due batteri possa decomporre del 40% i sacchetti di plastica abbandonati in pochi mesi.